La mostra “È questione di Spazio”, è stata inaugurata il 10 novembre 2023 presso Melarias Contemporanea, spazio espositivo creato dall’Architetto Enrico Franzolini all’interno del suo studio di Udine.
Melarias Contemporanea è uno spazio culturale dedicato ad occasioni di ricerca e confronto sull’arte contemporanea.
Melarias Contemporanea ha due sedi: quella di Udine che ospiterà formula consolidata delle esposizioni artistiche e quella di VIaso, nel cuore della Carnia, che ricercherà la relazione con il territorio e le sue espressioni culturali, i suoi linguaggi artistici e artigianali.
La mostra ha permesso di condividere l’attuale fase del lavoro di ricerca a cui mi dedico dal 2016. Il soggetto di questo lavoro è la mia personale ricerca del Vuoto, Vuoto inteso come dimensione intima in cui trovare ordine, equilibrio, silenzio, praticamente un antidoto al troppo-pieno del quotidiano. Per rappresentare questo concetto di Vuoto, utilizzo la metafora dello Spazio. I soggetti delle mie fotografie sono quindi contesti architettonici ripresi attraverso un preciso schema linguistico elaborato negli anni di sviluppo di questo progetto.
Lo spazio espositivo ha importanti caratteristiche che valorizzano l’allestimento: le linee essenziali e i volumi bianchi creano un contesto ideale per l’esposizione delle opere, assecondando l’intenzione linguistica di creare un contesto installativo unico in cui il visitatore possa avere la sensazione di entrare fisicamente.
Le opere selezionate per l’allestimento appartengono alla fase corrente della ricerca dal titolo “C’è SPAZIO per tutti”, sono datate 2022 a parte un dittico del 2021 e due fotografie del 2020, opere queste già esposte nel 2021 all’arsenale di Venezia, finaliste del premio ArteLaguna (15^ edizione). Le stampe, come sempre, sono quelle di Stefano Ciol. L’allestimento prevede 10 opere organizzate in dittici e trittici (formato espositivo 100x70cm e 70x70cm), una composizione installativa di grande formato e un’area dedicata alla proiezione video.
L’allestimento prevede anche un angolo dedicato alla proiezione di un video realizzato a febbraio 2023 in occasione di Narrazioni Spaziali, evento organizzato da MAKE Spazio Espositivo e ospitato dalla studio GEZA Architettura. La sequenza di immagini è accompagnata dalle sonorizzazioni di Luca Colussi.
Oltre alla collaborazione dell’Architetto Enrico Franzolini e del Professor Simone Furlani (Università di Udine, Filosofia dell’Arte, Filosofia Teoretica) il cui intervento critico è contenuto all’interno del piccolo catalogo, la mostra è realizzata con il contributo di
- dell’associazione On Art di Udine e di Gino Colla che ha anche preparato un breve scritto contenuto nel catalogo;
- della Fondazione Giovanni Santin Onlus, Venezia
- di Incipit Film, Udine
e con la collaborazione
- dell’Associazione Playart, Alta Val Torre;
- della galleria Marco Codognotto - arte moderna e contemporanea, Udine
e con il patrocinio del Comune di Udine.
I lavori esposti sono raccolti in una piccola pubblicazione (È questione di Spazio, Maurizio Ciancia - ISBN 979-12-210-4519-2) insieme ai contributi critici elaborati da Gino Colla (Presidente Associazione Culturale ON ART) e dal Professor Simone Furlani (Università degli Studi di Udine, Dipartimento di studi umanistici e del patrimonio culturale - Filosofia teoretica)
Il muro come perturbante
Le opere di Maurizio Ciancia ci riportano al “perturbante”, concetto e libretto di Sigmund Freud (1919).
Perturbante è qualcosa che ci colpisce intimamente perché è un rimosso che ritorna (come deja-vu). Dove si situa la rimozione in Ciancia ?
In primis, ricordiamo che la rimozione è spesso legata all’infanzia (perduta), dove il bimbo/a è lasciato solo dalla madre, e l’assenza non riesce ad essere elaborata, perché l’inconscio primordiale ci induce a credere che l’assenza sarà per sempre.
Le pareti vuote di Ciancia sono appunto prive di presenze e vanno elaborate da ciascuno.
Il muro è l’oggetto che ci ancora alla realtà e che induce alla nostalgia di una presenza che si è dissolta.
La funzione dell’oggetto-feticcio (vedasi Winnicott), è determinante nello sviluppo della persona. Qui l’oggetto-muro è qualcosa di non assimilabile o superabile. Qualcosa che è fuori di noi, ma che ci portiamo dentro.
Così come l’inconscio o anima, che è dentro, ma anche fuori di noi. Un esempio sono i giardini zen giapponesi, che ci inducono la calma e la serenità.
Queste riflessioni e queste immagini ci conducono dove ci porta la “vera” arte.
In quel luogo dove ognuno trova una parte di quello che è o di quello che è stato.
Gino Colla
On Art Associazione Culturale
Segno e superficie: la fotografia come esercizio di immanenza
Il concetto di immagine è un concetto molto scivoloso. La filosofia si è sempre concentrata in profondità su questo concetto. Di più: quello di immagine è un concetto costitutivo della filosofia, tanto che si potrebbe dire che filosofia e teoria dell’immagine coincidono. Se la filosofia è ricerca, indagine, interrogazione sulle condizioni di possibilità della nostra esperienza e del nostro sapere, allora essa non può configurarsi se non come indagine sulla natura, le possibilità e i limiti dell’immagine. D’altra parte, che cos’è la “seconda navigazione” intrapresa da Platone, quella che approfondisce la ricerca di una verità che non si può cogliere con i sensi, ma solo con l’intelletto, se non un cercare di affacciarsi al di là delle immagini? Che cos’è la rivoluzione copernicana di Kant se non un’indagine inedita sulle immagini, su ciò che si manifesta della realtà e sui modi di cui disponiamo per comprenderli scientificamente?
Proprio seguendo le vicende della filosofia moderna (e delle teorie moderne dell’immagine) possiamo isolare un punto d’approdo, tutt’altro che sereno, pacifico, rassicurante, al quale ha contribuito proprio la nascita della fotografia. Si tratta dell’aporia per la quale senza immagine la realtà non si manifesta, ma con l’immagine la realtà rischia di essere allontanata, nascosta, celata dietro l’immagine che dovrebbe manifestarla e che, a questo punto, manifesta sé stessa (1). Da un lato, senza immagine nessuna realtà, dall’altro, con l’immagine, l’immagine sovrasta la realtà. E se questi sono i margini, all’arte non rimangono che due prospettive. Sprofondare, per quanto possibile, nel rapporto che trattiene l’immagine ancorata alla realtà, al suo problema, alla necessità che sia ancora possibile una fedeltà dell’immagine al reale, oppure accettare la possibilità che l’immagine si separi dal reale e trasformare l’immagine in un luogo di pura espressività.
Le fotografie di Maurizio Ciancia assumono la prima prospettiva: vietano all’immagine, quasi programmaticamente, ogni forma di autonomia, e tendono alla decostruzione di tutto ciò che è illusione. Le sue fotografie cercando di risalire a ciò che è prima e al di qua dell’immagine. Cercano di risalire alle componenti di base di ogni immagine: superficie e segno, prima ancora del colore. Naturalmente, Ciancia è consapevole dell’impossibilità di andare fino in fondo alla decostruzione dell’immagine, è consapevole dell’irriducibilità delle immagini (e tanto più delle fotografie) al reale che rappresentano o dovrebbero rappresentare. E allora compie una scelta radicale, quella di procedere per sottrazione. Oggetti, figure, forme, personaggi, le sue foto si svuotano di tutto ciò che è ornamento e sovrastruttura. Gli interni si svuotano, ammettono solo un oggetto, un’insegna, qualcosa che marchi la differenza di cui l’immagine non può fare a meno. Le sue fotografie allontanano tutto ciò che s’intromette tra lo sguardo e la realtà, anzi, tra lo sguardo e lo sfondo della realtà, un suo orizzonte ultimo, se mai esista.
Questo svuotamento corrisponde a un preciso programma che, a ben vedere, eccede, senza mortificarla, la dimensione prettamente artistica. Ciancia invita a un percorso di risalita all’essenziale, al semplice, alle possibilità ultime del nostro esperire e del nostro vedere. Soltanto sottraendo è possibile risalire ai principi, ai presupposti dell’esperienza, ovvero tempo e spazio. E se la fotografia, per sua costituzione, può intrattenere col tempo solo un rapporto indiretto, cioè può solo alludere al tempo, lo spazio diventa il luogo privilegiato di riflessione sulla realtà e sulla fotografia, e si tratta di una riflessione di matrice filosofica. Di più: c’è un certo misticismo, una netta presa di posizione contro ogni forma di idolatria dell’immagine. È come se Ciancia seguisse con profondo rigore i presupposti di Vilem Flusser, laddove egli auspica una rinascita dello “zelo contro l’idolatria” all’interno della dialettica tra “superficie e linea”(2). Oppure, seguendo alcune suggestioni di Roman Ingarden, è come se Ciancia si spingesse oltre l’immagine, come si deve fare per capirne limiti e possibilità, e movimentasse riferimenti extra-iconici, musicali o, comunque, fonetici (3).
Naturalmente, questa tensione contro lo spettacolo, contro ogni forma di narcisismo e di esibizionismo, assume, innanzitutto, un immediato significato sociologico. Le fotografie di Ciancia affondano nel quotidiano, nel mondo del lavoro e dell’economia: svuotano stanze e spogliano pareti, colgono costanti architettoniche o si collocano davanti alle porte sezionabili di officine e capannoni. Bloccano il tempo del quotidiano e del lavoro, ne sospendono la velocità. Come detto, invitano alla riflessione, a un lavoro di ricerca filosofica sulla realtà, sulla società, sui luoghi dell’abitare e del lavorare. Tuttavia, questa riflessione non si risolve in indicazioni sociologiche ma, allo stesso tempo, non si risolve nemmeno in prese di posizione estetiche. Pur senza rinunciare a un criterio di bellezza (che non diventa mai ideale, né autoreferenziale), che afferma la propria presenza soprattutto mediante l’utilizzo dei colori e della composizione complessiva dell’immagine, anche il valore estetico delle sue fotografie rimanda oltre sé stesso. Meglio: la portata artistica della fotografia si può apprezzare fino in fondo dopo essere andati oltre l’estetica e avervi fatto ritorno. Le fotografie di Ciancia testimoniano che superficie e segno, soltanto queste due componenti di base, aprono spazi espressivi insospettati, ma soltanto dopo aver limitato, contenuto e smentito le false promesse dell’espressione artistica. La bellezza delle sue fotografie è una bellezza per l’intelletto, prima che per i sensi, è una bellezza per la mente, prima che per gli occhi.
Quest’ultimo punto, ancora una volta, è decisivo per comprendere il lavoro di Ciancia. Come gli arabeschi o la calligrafia, il suo essenzialismo conduce l’osservazione ai limiti del vedere. Conduce il vedere all’interno di una sorta di corto-circuito, di una vertigine, in spazi in cui vuoto e pieno si equivalgono, si invertono, si confondono (4). Il lavoro di Ciancia conduce l’osservatore all’altezza del momento di passaggio tra sensibilità e intelletto, quel momento in cui la sensibilità riconosce la propria insufficienza e si attiva il pensiero. Questo non significa astrarre, tutt’altro: il ritorno al vedere diretto dopo questa vertigine sottrae l’osservatore, come detto, all’estetismo, allo spettacolo, al divertimento. L’esperienza estetica è davvero tale, quando non è fine a sé stessa. Il ritorno da questo tempo e da questo spazio extra-iconici consentono di apprezzare fino in fondo la bellezza delle immagini. Consentono, tuttavia, di disinnescare ogni tentazione idealistica, utopica, metafisica. Alcuni ciuffi d’erba, l’erba di un prato o le strisce del parcheggio antistante, la grata di un tombino, la maniglia di una porta, un termosifone, ancorano la riflessione, l’essenzialismo e il misticismo di Ciancia alla realtà, alla “miserabile realtà” (5). Il percorso di Ciancia tende all’immanenza. Non ha mai abbandonato il reale. È un lavoro che affonda nella realtà e nella realtà che diventa immagine.
Quando l’arte, soprattutto l’arte visiva, risale ai suoi presupposti, quando essa si affaccia al di là di figure e forme, l’arte si trova davanti a una scelta. Può diventare manipolazione di presunti “segni sincretici” (6), alimentando narrazioni tanto interessanti quanto interessate (sulla globalizzazione, il digitale, l’antropocene, questa o quella rivoluzione) oppure può assumere come principio l’inafferrabile simultaneità di segno e superficie. Questo principio impone un lavoro probabilmente infinito, che Maurizio Ciancia sta sviluppando con impegno, con passione e, in ogni caso, con straordinario rigore.
Simone Furlani
(1) È possibile risalire a questa aporia in diversi modi e attraversando diversi autori. Per quanto qui ci interessa, è possibile ricostruire questa aporia rileggendo due grandi classici della teoria dell’immagine e, in particolare, della fotografia, ovvero S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it. di E. Capriolo, Einaudi, Torino 2004 e R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003.
(2) Cfr. V. Flusser, La cultura dei media, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 3-13.
(3) Cfr. R. Ingarden, Untersuchungen zur Ontologie der Kunst. Musikwerk, Bild, Architektur, Film, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1962.
(4) Cfr. S. Zannier, Maurizio Ciancia. La vertigine nello spazio, in “Juliet 200” 2020/2021 p. 68 e E. Lacava, Maurizio Ciancia. Tra Reale e Razionale, in “Juliet Art Magazine” online 2020 https://www.juliet-artmagazine.com/maurizio-ciancia-tra-reale-e-razionale/.
(5) Cfr. G. Büchner, Morte di Danton, in Id., Opere, a cura di M. Bistolfi, Mondadori, Milano 1999, p. 39.
(6) Cfr. A. Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Einaudi, Torino 2013, p. ccc